L’altro giorno, su uno dei tanti gruppi di scrittori e lettori di cui faccio parte, compare questa domanda: “Quando uno scrittore emergente può considerarsi emerso?”
Prima di tutto, onore al merito a chi ha fatto pubblicamente la domanda che ogni scrittore si pone ma mai a voce alta. Noi come tanti piccoli sommergibili a filo d’acqua stiamo lì nell’attesa di mostrarci in tutta la nostra gloria. Ma quando potremmo fare la nostra comparsa con la sicurezza di avere una buona copertura di fuoco che ci protegga?
Proverò a rispondere alla domanda anche se, come abbiamo ormai compreso, non esistono formule matematiche da applicare quando si tratta di creatività e di lavori creativi.
Innanzitutto, parliamo del mercato italiano e non di quello americano che è impostato su altre logiche e su figure diverse e che considera scrivere un vero e proprio mestiere, cosa che invece non accade in Italia.
Io ridurrei a tre i requisiti per salire al trono degli emersi:
- un contratto con una buona casa editrice o con un agente letterario:
- un buon numero di copie vendute;
- un nome riconoscibile.
Un contratto con una buona casa editrice è importante perché ci garantisce continuità nel nostro lavoro. Se alle nostre spalle c’è un marchio editoriale che investe su di noi e ottiene un buon risultato da questo investimento, è normale che la collaborazione non si fermerà a un solo progetto. Saranno disposti a rischiare ancora su di noi, portando il lettore ad avere fiducia nello scrittore e nei suoi successivi lavori.
Il numero di copie vendute. La parte numerica, forse la più veniale ma vendere è un requisito fondamentale per emergere (e anche per restare a galla successivamente). Parliamoci chiaramente; io ho elencato tre requisiti ma, in realtà, le cose sono tutte interconnesse. Trovare un buon editore pronto a metterci la faccia (il marchio) e un buon progetto di promozione ti aiuterà a vendere più copie e a crearti un “nome”. Alla fine, però, la casa editrice guarderà il suo profitto per cui, banalmente, sarà il numero delle copie a decretare un successo o un fallimento. E qui entra in gioco tutta la soggettività di noi poveri scribacchini; magari abbiamo venduto le nostre belle 100-150 copie e siamo superfieri di aver portato a termine una missione impossibile. E poi realizziamo che nel mercato editoriale, quei numeri non vengono neanche considerati. Per una casa editrice, con quelle vendite, non siamo fonte di reddito e non ci faranno un contratto opzionando la nostra seconda opera. Io resto sempre una di voi per cui lo so cosa avete provato quando lo avete capito.
Avere un nome riconoscibile. E qui può essere inteso in molti modi ma l’importante è che, dopo aver pubblicato, non si continui a essere un perfetto sconosciuto. Per ovviare a questo requisito, molte case editrici decidono di puntare su nomi già affermati, anche non nel campo della letteratura e far scrivere loro testi di vario genere. Sul risultato, preferisco non esprimermi.
Prendete tutto quello che vi dico con il beneficio del dubbio, primo perché niente è scritto sulla Bibbia dello scrittore e tutto è fonte di spunti riflessivi su cui spero di confrontarmi con voi e secondo, perché io non sono emersa. Sì, ho tirato la testa fuori dall’acqua come una piccola tartarughina ma non sono riuscita a uscirne completamente.
Quindi rimango lì a nuotare allegramente appena sotto l’acqua, aspettando il momento migliore per uscire. Mmmm… così sembro molto lo squalo!
Cara Silvia, già in quell’incipit: sono una scrittrice che… manifesti una coscienza che mi piacerebbe conquistare. Io amo scrivere, e ho persino appena provato l’emozione di pubblicare, ma ancora stento a pensare a me stessa in questi termini: una scrittrice. Perché amo tanti libri in modo così viscerale, che ciò che scrivo non mi pare confrontabile con quelli, così intensi che hanno avuto un ruolo formativo nella mia vita.
Uno scrittore, per me, non è colui che scrive, ma colui che scrivendo riesce a trasmettere emozione e a lasciare, nella mia idea, qualcosa nell’animo del lettore. Qualcosa di bello, qualcosa che aiuti.
Ho ricevuto critiche per questa mia visione del ruolo, perché sottintende, mi hanno replicato, un giudizio morale, come se fossero libri ‘sbagliati’ quelli che lasciano l’amaro in bocca, che rappresentano una realtà violenta e disperante, quelli che hanno un finale ‘unhappy’. Non è quello che intendo: da una vicenda infelice si può apprendere e uscire con la volontà di lottare, perché non si ripeta mai più. Primo Levi insegna. Però che uno scrittore si assuma la responsabilità dei messaggi che trasmette, sì, questo lo penso. E poi a me stessa, solo a me stessa, chiederei di scrivere storie che portino speranza. Ti propongo questa tema, se mai volessi affrontarlo nelle tue pagine: cosa fa di uno scrittore uno scrittore? L’atto dello scrivere? La correttezza della lingua? Il messaggio? L’emozione? Con affetto, Cinzia
Ciao Cinzia, grazie innanzitutto per il tuo commento che apre una riflessione molto importante.
Devo dirti che anch’io ho dovuto prendere molto consapevolezza di me stessa per potermi definire una scrittrice e so di esserlo anche se non posso neanche paragonare il mio romanzo ai “grandi” che mi hanno cambiato la vita. Però qualcosa ho dato con il mio libro, l’ho capito da chi mi scriveva dopo averlo letto.
Ma devi dare solo sensazioni positive? Io non sono d’accordo.
Per me uno scrittore deve raccontare una storia e ci sono storie che finiscono bene e altre che finiscono male. E altre ancora che rimangono in sospeso.. Può uno scrittore raccontare solo cose belle? Limiteremmo la scrittura, privandola di tutte quelle emozioni che, seppur non piacevoli, sono reali e le persone si riconoscono nella realtà anche se non c’è l’happy end. Ma sicuramente raccoglierò il tuo suggerimento e scriverò un articolo per approfondire questo tema.
Il mio consiglio è: continua a scrivere quello che vuoi e quello che senti. Tanto a qualcuno non andrà bene comunque ed è giusto così.
Con affetto ricambiato, Silvia.
In realtà, come ho scritto, non chiedo affatto agli scrittori di scrivere solo cose belle, ci mancherebbe. Semmai sposterei il problema sul messaggio, che vorrei fosse sempre costruttivo. Per intenderci, un libro che ritragga gli orrori della guerra conterrà scene orribili, ma un messaggio utile: la guerra è disumana e va abolita. Quanto alla mia personale scrittura, mi piacerebbe lasciare sempre a un lettore una sensazione di benessere. Ma questo vale solo per me, è una mia necessità, il desiderio di accogliere un amico in una storia da cui esca con la sottile nostalgia di chi è stato bene, in buona compagnia. Non è la premessa di uno scrittore di successo, lo so, ma è egualmente un mio desiderio e quando qualcuno mi ha fatto capire che ci ero riuscita mi sono sentita felice, serena, come se dopo aver ricevuto tanto dai libri, almeno un po’ del debito contratto l’avessi saldato.
É giustissimo, ogni scrittore vorrebbe colmare un po’ di quel debito che ha con la letteratura ma bisogna uscire da quell’ombra e trovare il proprio stile e le motivazioni per raccontare una storia.