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Sono un cliché

23 Ottobre 2020 by Silvia T. Nessun commento

Ho passato tutta la vita a cercare di non diventarlo eppure eccomi qui ad ammetterlo: sono un cliché.

Sono una donna adulta di trentotto anni. Non sono sposata, non ho figli e e vivo da sola. Quella che i più (i meno svegli di solito) definiscono una “zitella”. Sono una donna adulta che ha un lavoro che non è una passione e una passione che non è un lavoro. Ho avuto grandi sogni che sono andati via via rimpicciolendosi…

Sono alla ricerca dell’amore? Direi proprio no. Come tutti i cliché, vivo nella paura di soffrire e quindi evito quello che potrebbe provocare dolore. E l’amore mi ha fatto soffrire, troppo. Mica sarò così cretina da rinfilarmici?

Una volta il cliché alla mia età era essere sposata con figli e mutuo ma i tempi cambiano e così anche i cliché e ora il testimone è passato alle donne come me: single (sempre le zitelle di cui sopra), che non bruciano i reggiseni ma che sono coscienti dei loro diritti, sporadicamente bevitrici, che vivono e si mantengono da sole. Vaghiamo tra confusione e silenzio, alla ricerca di qualcosa che ci scuota dal torpore della quotidianità.

Forti, audaci, indipendenti ma comunque un cliché. Non dobbiamo avere bisogno di nessuno, è nello statuto del nuveau cliché, dobbiamo cercare noi stesse ma non dobbiamo trovarci in luoghi troppo assurdi. Dobbiamo essere il nostro corso/libro/lifecoach di autoaiuto.

E da “io” sono già passata a un “noi” generico. Tornerò all’ io narrante e infatti, io mi porto il peso di un altro immenso cliché: la scrittrice fallita. Colei che vive nella bruciante sensazione di aver un talento che non può, non sa e forse non deve neanche utilizzare.

Ma non deve essere tutto negativo, sapete. Ho scoperto che, in fondo, essere un cliché non è così terribile come pensavo. Perché di grazia?

  • Se hai sempre pensato con la tua testa, hai preso le tue decisioni e pagato i tuoi conti, è così importante il risultato finale?
  • Rischiare non ti salva dal diventare un cliché ma ti salva dall’impazzire; come si può vivere nella costante certezza di non aver mai provato a fare niente?
  • Un cliché che sa di esserlo assume un grande potere.

E allora perché ce la stai menando con questo articolo? Me lo sono chiesta anch’io, che credete? Sono un cliché dotato di intelligenza e spirito critico. La risposta è: io ho sempre voluto essere un outsider.

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Il self publishing

6 Maggio 2020 by Silvia T. Nessun commento

Non c’è due senza tre e, se avete contato bene, manca solo lui all’appello: il self publishing. E’ tanto discusso, amato e odiato che, qualunque cosa dirò andrò contro qualcuno ma fa parte dell’essere sinceri. Partiamo dal presupposto che è un metodo relativamente “nuovo” per pubblicare e come tale può e continua a migliorare.

E, sinceramente, io non mi sento né di raccomandarvelo né di sconsigliarvelo a prescindere.

Se siete dei lettori fedeli, vi ricorderete che, all’inizio di questa fantastica guida intergalattica per scrittori emergenti, vi ho detto che uno scrittore deve prendere tante decisioni; non mi riferivo solo alla trama, alla copertina o alle cose da tagliare in fase di revisione. Significa anche decidere cosa fare del tuo libro una volta che è bello finito e impacchettato.

Per cui vi elencherò le ragioni per cui ho scelto di non autopubblicarmi:

  • era il mio primo romanzo, avevo un po’ paura di toppare, volevo avere delle opinioni da un professionista, un editor insomma;
  • tu sei Nessuno. Esatto, non ve la prendete. Un esordiente con il suo primo libro in mano è il Sig. Nessuno in persona. Quindi io, Sig. Nessuno, pubblico un libro, passato solo dal mio giudizio (e credetemi, c’è tanta gente che non sa scrivere che pensa di saperlo fare), nel mare magnum di Internet… sono praticamente una barchetta alla deriva. La quantità di fattore C che ti serve per essere trovato da un numero di lettori decente tra le milioni di autopubblicazioni che circolano, dovrebbe moltiplicarsi in maniera esponenziale! Essere trovati è praticamente impossibile senza qualcuno che punti il dito sul tuo libro. E questo ve lo confermo, perché negli ultimi mesi, sto scrivendo su una famosa piattaforma sotto pseudonimo e, ragazzi, non mi si fila nessuno. Per fortuna io lo stavo facendo un po’ per gioco, un po’ per provocazione. Vi dico solo che ragazzini che non sanno usare il verbo avere, su questa piattaforma scoppiano di follower. E la qualità? Traetene voi le conclusioni. Vi dico solo che, in questa quarantena, ho letto molti più post sui social di quanti avrei dovuto e mi sono profondamente avvilita. Neanche le basi dell’italiano…
  • volevo essere “scelta”. Vanità? Egocentrismo? Sì, probabile! Ma anche quel dubbio che penso serpeggi in tutte le menti umili: “e se avessi scritto una cagata pazzesca”?
  • “Un momento di chiarezza” è una storia particolare, non sapevo quanto le persone l’avrebbero ben accolta. La trama di fondo è, di fatto, banale. Devi leggerlo per scoprire le sue particolarità;
  • non volevo vendere il mio libro come una cassa di frutta;
  • ultimo ma non ultimissimo: le copertine dei libri autopubblicati sono veramente brutte! O hai la fortuna di avere un amico o un parente che bazzicano nel disegno o rischi di trovarti una copertina improponibile. E come abbiamo già detto, la copertina fa.

Questa è stata la mia scelta, quello che credevo essere meglio per il mio libro. Ora voi dovete fare quello che è meglio per il vostro. E non flagellatevi se le cose non vanno come avevate previsto.

Sappiate che, di fatto, l’autopubblicazione è una scommessa su voi stessi, come scrittori ma anche come “venditori”del proprio libro. Quindi, se decidete per questa opzione, preparatevi ad accontentarvi di una piccola fetta di pubblico, composta di amici e parenti o siate sfacciati.

Provateci davvero, con impegno! Rischiate!

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Raccontare il lutto

8 Aprile 2020 by Silvia T. Nessun commento

Mi sembra giusto, in questo momento, trattare un argomento in cui siamo immersi tutti, anche se non vorremmo: il lutto.

Gran parte del mio primo romanzo trattava l’affrontare il dolore per riprendersi la vita e i momenti belli. Tutto questo non avviene schioccando la dita, è un processo, diverso per ognuno e per ogni dolore ma è, comunque, fatto di fasi.

Quello che mi colpisce molto, in questo momento, è come siamo stati costretti a cambiare la nostra elaborazione del lutto e del dolore che ne segue.

Le persone stanno morendo da sole, non abbiamo la possibilità di tener loro la mano in quegli ultimi istanti, non possiamo piangerli mentre li seppelliamo, non abbiamo la possibilità di restare loro accanto mentre soffrono. Possiamo solo aspettare che una telefonata per sapere com’è andata a finire.

Devo ammetterlo: io non ho mai visto una persona morta. Ho sempre pensato che quando è finita, quella persona sia solo un corpo, che tutto quello che l’ha resa la persona che amavo era andato via. Eppure, a molti, vederli in pace dà sollievo per quanto possibile. E anche io vado in chiesa, pur non credendo in Dio, per accompagnarli durante il loro ultimo viaggio.

Ora, quelli di noi che l’hanno vissuto, dovranno scrivere un nuovo lutto. Siamo stati privati della persona che se ne è andata ma anche dell’addio, che è una fase fondamentale nell’accettazione della morte.

Come sempre vi dico, che scriviate di voi o meno, cercate di mettervi sempre nei panni del vostro personaggio; darete realismo e permetterete alla gente d’identificarsi.

Quelli che scriveranno di questi lutti, non dovranno sottovalutare questa parte importante, fondamentale nella nostra cultura.

A volte soffrire non è piangere, ogni dolore si esprime diversamente ma ogni dolore ha in sé sempre la paura di perdere qualcuno o qualcosa o entrambe.

Questo virus ha cambiato il nostro lutto, dobbiamo imparare a scrivere anche di questo e della colpa (non giusta ma che ci sarà) di aver lasciato le persone sole mentre morivano.

Voi siete gli scrittori di oggi, state vivendo la situazione in prima persona; toccherà a voi essere i narratori di questa storia. A noi.

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Le epidemie letterarie

26 Febbraio 2020 by Silvia T. Nessun commento

Stiamo entrando a far par parte della Storia. E, come tutti prima di noi, non ne siamo consapevoli. Nessuno ci crede ora ma, un giorno, qualcuno parlerà di questo 2020 e di quando la Cina e intere città di altre nazioni vennero paralizzate dal Coronavirus o, come lo definisce la scienza, dal virus Covid-19. Si ricorderanno di quelli che ci scherzavano sui social per sdrammatizzare e di chi, preso dal panico, ha saccheggiato i supermercati in cerca di viveri e di prodotti sterilizzanti.

Oltre che nei libri di storia, compariremo anche nelle storie di che le storie le racconta. Ebbene sì, noi scrittori di oggi o del futuro.

Non siamo sicuramente a quel punto ma mi vengono in mente tanti libri famosi che hanno avuto tra i protagonisti un’epidemia. Il cinema e la tv hanno saccheggiato l’argomento proprio come quelli che hanno svuotato i supermercati.

Ma torniamo alla letteratura. Sì, sto per fare il nome del romanzo tanto odiato da tutti i ragazzi delle scuole superiori: I promessi sposi.

Lo so, anch’io quando andavo a scuola non ne avevo capito la bellezza e l’unicità ma, fidatevi, se non lo avete già fatto, rileggetelo da adulti, senza essere costretti ad analizzare ogni personaggio e ogni passaggio e vi troverete tra le mani un capolavoro.

Manzoni, come molti , utilizza la peste come espediente letterario. Quando la nostra sopravvivenza è a rischio, le maschere cadono e ci riveliamo per quelli che siamo. Tutti i personaggi de “I Promessi Sposi” hanno bisogno di fare questo: confrontarsi con se stessi per scegliere la strada da percorrere. E, infatti, quando tutti i personaggi sono in pace, arriva la pioggia purificatrice che porta via i peccati del passato e la malattia.

Piccola aggiunta off topic: la scena della mamma di Cecilia che depone il corpo della figlioletta morta sul carro dei monatti è straordinaria; riesci quasi a vederla, per quanto sono vivide le parole con cui è descritta.

Un altro romanzo che usa l’epidemia come espediente narrativo è “Cecità” di Samarago. Un capolavoro terribile.

Quando l’epidemia di cecità (appunto) colpisce un parte della popolazione che viene ghettizzata perché non si conosce né la natura né i metodi di trasmissione del virus, la lotta alla sopravvivenza porta le persone a comportarsi nei modi più spregevoli.

La psiche umana debole di fronte all’epidemia, proprio come il corpo è vulnerabile alla malattia.

Per una mia sopravvivenza personale, devo credere che l’umanità non arriverebbe mai a tanto ma, se devo essere sincera, non potrei metterci la mano sul fuoco.

E l’ultimo romanzo è il “Decameron“. Qui la peste viene utilizzata per raggruppare invece di dividere. Vi ricordate quando vi dicevo che, a volte, banalmente, uno scrittore ha la necessità narrativa di mettere dei personaggi insieme in uno stesso luogo?

Boccaccio usa la peste nera per bloccare dieci giovani fuori Firenze e far sì che per passare il tempo (non c’era Netflix ai tempi), questi si raccontino quelle che poi sono diventate le famose novelle.

E ora, una mia piccola considerazione. Io ho seguito la vicenda senza farmi prendere dal panico (non ho mai ritenuto utile fasciarmi la testa prima di rompermela) ma capisco la paura e trovo che i media e soprattutto, i social media, stiano diffondendo un terrore inutile. Sono state messe in atto le misure per evitare un ulteriore contagio. Non serve fare una situazione aggiornata minuto per minuto, riprendendo anche notizie non verificate pur di dire qualcosa.

E per concludere, oggi ho aperto la mia pagina Facebook e nella home c’erano circa venti articoli sul Coronavirus ma, a me, l’occhio è cascato sul post di Save di Children che sta combattendo contro la polmonite in Africa, che uccide ogni anno non so quante persone, tra cui molti bambini.

Quindi, il mio unico appello è: non fatevi prendere dal panico. Non prendete per buono tutto quello che vi viene detto ma ragionate sulle cose con la vostra testa (ma questo sempre!). E, cavolo, lavatevi queste mani! E’ una buona norma igienica SEMPRE!

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