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La generazione Y

4 Luglio 2020 by Silvia T. Nessun commento

“Con i termini generazione Y, millennial generation, generation next (generazione successiva) o net generation (generazione della rete) si indica la generazione che, nel mondo occidentale o primo mondo, ha seguito la generazione X e alla quale succede la generazione Z: coloro che ne fanno parte – detti millennial(s) o echo boomer(s) – sono i nati fra i primi anni ottanta e la metà degli anni novanta.[1][2]; è dunque la generazione “del millennio“, ovvero coloro nati alla fine del XX secolo.” Wikipedia

Solo io la trovo una definizione complessa?

Non avevo mai pensato di essere una “millenial”, io mi ricordo che ero la generazione in cui non si dava un nome alle generazioni.

E Y poi? Che lettera è? Quando giocavamo a “nomi, cose, città”, quando qualcuno beccava la Y si annullava e si pescava di nuovo.

Ecco che generazione siamo. Quella che si passa per arrivare a un’altra. Cioè, siamo nell’alfabeto ma parlandoci chiaramente: una cosa che comincia per Y? Siamo stati lasciati sul foglio senza che nessuno ci abbia fatto giocare.

Le premesse erano fantastiche, eravamo bambini nel boom economico, quando il buco nell’ozono era ancora un piccolo pertugio, quando non si moriva perché mangiavi il glutine e siamo cresciuti senza Internet e cellulari.

Meglio? Peggio? Non è questo il punto.

Lasciate che vi racconti qualcosa della generazione Y, la mia generazione.

Non ho paura a dire che, ormai, noi Y siamo arrivati alla soglia della quarantina ed è più facile vedere ora quello che è stato.

Che ci sia andata bene o male, possiamo affermare che siamo stati la generazione più danneggiata dalla società italiana. I problemi delle generazioni seguenti viene dal danno fatto a noi.

Allora, io ho provato, nel mio lungo percorso, ad affittare e a comprare una casa e volevano un rene in cauzione (organo vitale che se ne sarebbe andato). E, in questa società che demanda tutta la pressione sulla famiglia di origine, senza un padre danaroso o un marito, non puoi essere indipendente fino in fondo. Da donna, è così che mi sento e che mi sono sempre sentita.

Con noi sono nati, precarietà, stagismo professionale (termine con cui indico chi, a causa della contingenza, è diventato uno stagista di professione. Uno dei grandi errori è stato permettere la nascita di questa figura in Italia. Non eravamo in grado, bisognerebbe solo abolirla ormai, non c’è possibilità di sistemarla), amore liquido (e qui prendo il nome dalla sociologia per indicare relazioni amorose “di merda”. Scusate il francesismo ma non mi viene in mente altro) e abbiamo aperto la strada ai famosi “bamboccioni” (quando ho sentito per la prima volta questa definizione mi è quasi esploso il fegato dalla rabbia ma, tranquilli, ora sta bene).

Cosa c’entra questo con la scrittura? Forse non l’ho detto abbastanza volte: tutto c’entra con la scrittura. Scrivere è parte di un vissuto.

E il nostro vissuto è quello di una generazione con grandi sogni, rassegnarsi al fatto che le cose debbano essere così non ci va proprio giù. D’altronde, come dico sempre, il giro sulla giostra è uno e non ce ne concederanno un altro. Siamo sognatori. Potete biasimarci?

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Il ricordo

7 Giugno 2020 by Silvia T. 2 commenti

Probabilmente l’avrete già sentito da qualche parte, soprattutto se scrivete da un po’ di tempo ma “l’atto di ricordare cambia il ricordo stesso“.

Ve ne sarete accorti; spesso raccontiamo lo stesso evento ma con dettagli diversi, a volte addirittura contrastanti. Questo perché la nostra memoria, soprattutto con il passare del tempo, tende a sfocare lo sfondo per concentrarsi sugli eventi principali. Quello che raccontiamo o che scriviamo è la nostra rielaborazione di un particolare ricordo.

Ciò che, invece, rimane stampato nella nostra mente è la sensazione che provavamo in quel determinato momento e questo influisce anche sulla selezione dei dettagli che la nostra memoria si porta dietro.

Per questo oggi voglio fare una cosa diversa, darvi un esercizio pratico, perché va bene la teoria ma, di fatto, uno scrittore deve scrivere.

Il modo in cui rielaboriamo ci rende unici ed è questo che vorrei che faceste: pensate a un momento della vostra infanzia che vi ha dato un’emozione (gioia, dolore, rabbia, solitudine, felicità…) e scriveteci un racconto. Concentratevi su ciò che provavate e non sugli eventi.

Questo è il racconto che ho scritto io quando mi è stata chiesta la stessa cosa ed è anche la prima cosa scritta da me che sia mai stata pubblicata (dalla rivista letteraria Paginauno). E’ liberamente tratto da un ricordo reale della mia infanzia.

NEL PAESE DEI BAMBINI

Sembravano essere lì da sempre e forse era proprio così; messi lì apposta come statuine di un presepe per dare anima a quell’insieme di palazzi.

Era ormai quella disomogenea combriccola di ragazzini a dare orari, suoni e colori all’intero del quartiere, come il motore che alimenta la macchina.

Cominciavano a comparire un po’ alla volta nel cortile già al mattino, ora che era estate, con i loro calzoncini corti e le canotte colorate; si ritiravano nella tana per pranzare o cenare e poi eccoli di nuovo lì, senza scopo né noia, a gironzolare tutto il pomeriggio o seduti a parlare sulle panchine fino a tarda sera.

In quell’afosa giornata di luglio si stavano tirando la palla nello spiazzo davanti alla portineria; l’asfalto era piegato dal calore intenso e i vestiti rimanevano appiccicati al corpo come attratti da una calamita.

Eppure, la piccola comitiva non sembrava risentire dell’infernale temperatura di mezzogiorno. In fondo si sa: nel paese dei bambini non è mai né troppo caldo né troppo freddo!

Valentina, la più alta e scaltra del gruppo, si lanciò per afferrare la palla lanciata malamente da Mattia.

“Ma che si fa, non si va a mangiare?” chiese Sicilia, soprannominato così per la provenienza geografica.

Si era trasferito a Milano solo da pochi mesi e da allora era stato ribattezzato da Laura con il nome della terra natia perché nessuno riusciva mai a ricordarsi quello vero; avevano ritenuto più facile presentarlo come “Lui è Sicilia, per gli amici Sici!”

Impossibile da dimenticare!

“Aspettiamo che ci chiamino!” rispose Laura.

Sici fece una smorfia di disappunto “Speriamo presto allora, mia madre oggi ha fatto la pasta con le sarde!”

“Che schifo!” sbottò Marta.

Marta era piuttosto bassina per la sua età e con qualche chilo di troppo, ma era molto agile e tra loro era l’unica che riuscisse a risalire lo scivolo al contrario, motivo di indiscusso vanto.

“Cosa sono le sarde?” chiese Mattia perplesso.

Sici scrollò le spalle. “Una cosa buona che si mette nella pasta…non lo so esattamente, mia madre dice cittu e mangia!”

Tutti presero per buona la definizione della sarda della madre di Sici.

Marta tirò la palla a Mattia con tutta la potenza di cui era capace ma lui, distratto da uno stormo di uccelli che si levava in quel momento, la fermò con la faccia.

Laura si avvicinò subito al fratello minore: “Oh Matti, ti sei fatto male?” chiese.

“Mmmm…” mugugnò Mattia tenendosi la guancia con una mano; Laura gliela scostò delicatamente e lo vide arrossarsi di colpo e gonfiarsi leggermente.

“No dai non è niente, è la botta, ora si sgonfia! Cavolo Matti, stai attento, adesso se mamma ti vede con quella faccia sai quanto mi rompe! Dai Sici ricominciamo da te!”

Sici riprese la palla e la lanciò in aria senza direzione; quella partì come attaccata ad un razzo e si andò ad appoggiare con un sonoro rimbalzo proprio sul tetto della portineria.

“Allora tu sei nato scemo Sici! Ora ci vai tu a bussare a Carmelo!” sentenziò Valentina.

“No dai Vale…quello mi fa paura!”

E, come evocato, sulla soglia apparve Carmelo, il portinaio, con la sua camicia bianca sudaticcia a coprire la grossa pancia, la testa calva al centro e i baffoni da narcotrafficante colombiano.

“Che avete combinato?” disse in un italiano sgrammaticato.

“Carmelo, ci è finita la palla sul tetto…non ce la puoi prendere?” chiese Laura.

Carmelo scosse la testa. “No è troppo alto, non ci arrivo!”

“Ma con la scala ci arrivi… se vuoi ci vado io!” ribatté Marta.

“No, non si può!” Carmelo si pronunciò ponendo fine alla discussione.

Aveva quello sguardo che evitava ogni tipo di obiezione.

Da tempo ormai tutti avevano capito come funzionava la giurisdizione condominiale: per qualche strana ragione tutto ciò che finiva all’interno del perimetro della portineria diventava automaticamente di proprietà di Carmelo.

In quale antica consuetudine affondasse le radici questa legge a tutt’oggi risulta un mistero!

“Bella Sici davvero! Altra palla persa per sempre!” si complimentò ironicamente Valentina.

“Beh però era un bel tiro…dieci punti almeno!”
“Peccato che non stavamo giocando a punti! E ora che si fa?”

“Campana?” propose non troppo convinta Marta.

“Ma l’abbiamo già fatta stamattina! Lupo mangia frutta?” ipotizzò Laura.

“No… ho già fame così!” borbottò Sici.

“Che palle! Mangiati uno di quei fiori della Madonna…sono zuccherini lo sai, almeno ti bloccano la fame per un po’!” intervenne Mattia.

“Dai facciamo un due tre stella allora? Andiamo sotto il mio portico!” tagliò corto Laura.

Appena arrivati videro una delle loro mamme con ancora le ciabatte addosso e l’aria agguerrita che usciva dal portone.

“Laura…Mattia…è mezz’ora che vi chiamo dal balcone! Dove eravate? E’ pronto da mangiare! Ma Matti” disse notando il volto del ragazzino arrossato “che ti è successo in faccia? Sei viola!”

“Niente mà, è solo un po’ rosso, gli è arrivata una palla in faccia mentre giocavamo!” rispose Laura per il fratello senza menzionare l’autrice del tiro maldestro.

“E tu dov’eri?” chiese la madre rivolta alla bambina.

Laura roteò gli occhi verso l’alto senza emettere fiato, da tempo sapeva che non c’era una risposta giusta a quel genere di domande.

Tentò di cambiare argomento: “Mamma, stamattina Gennaro ci ha buttato giù di nuovo le bistecche! Ci stava quasi beccando!”

“Quell’uomo è malato Laura…con quello che sta la carne al chilo…” disse tastando delicatamente la guancia del figlio.

“Ma mamma…”

“Sì sì” disse la madre dopo essersi accertata che il danno fosse solo superficiale “ magari se voi la smetteste di fare casino sotto la sua finestra la sera…comunque lo dirò a Carmelo…vediamo! Che fate salite a mangiare o no?”

“Io non ho fame” disse Laura.

“Io vengo dopo mà!” si associò Mattia.

“Va bene…” disse la madre riaprendo il portone e mentre andava via “e tu Matti…tieni la faccia lontana dalle palle!”

Il gruppetto sghignazzò.

La madre scosse la testa rendendosi conto in ritardo del doppio senso della sua frase e poi, rassegnata, si trascinò con le sue pantofole fino all’ascensore.

I ragazzi rimasero lì sotto e cominciarono a giocare.

Laura contava: “Uuunnnn….duuue…tre.. stella!”

E si voltò velocemente per percepire un movimento ma rimase colpita dall’espressione di Sici; sembrava stesse soffiando, strabuzzava gli occhi ed era tutto rosso.

“Sici sei fuori!” disse.

“Ma non mi stavo muovendo!” piagnucolò il bambino.

“Si ma con quella faccia da scemo non puoi giocare, mi distrai! Non vedo gli altri!”

“Uffa…lo sapevo che facevo meglio ad andare a mangiare!”

 Laura si girò di nuovo e ricominciò a contare…

“Uuuuuuno….du..”

All’improvviso si sentì il rumore di qualcosa che sbatteva con violenza contro il muro dove Laura era appoggiata a contare.

La bambina si voltò di colpo e cercò con gli occhi l’oggetto che aveva provocato l’urto.

Vide qualcosa per terra e si avvicinò; in un secondo anche tutti gli altri si ritrovarono intorno all’oggetto non identificato.

“Gennaro ci ha tirato qualcosa?” chiese Sici spaventato.

“Dall’ottavo piano dell’altro palazzo, non ci arriva qui!” rispose Valentina.

Laura guardò con attenzione: “E’ un uccellino!”

“E’ vivo?” chiese Marta.

Laura lo sfiorò appena con il mignolo e l’uccellino si rimise sulle zampe…fece due passi e tentò di volare ma cadde di nuovo.

“Credo che abbia un’ala spezzata!” affermò Laura.

“Poverino!” disse Mattia “ Laura fai qualcosa, aiutalo!”

Laura non aveva la minima idea di come fare ad aiutare la povera bestiola, stava per annunciarlo al gruppo quando incrociò lo sguardo del fratello che sembrava sul punto di piangere.

“Dai Matti” disse cercando di ragionare in fretta “vai nel garage…prendi una scatola da scarpe e svuotala.. e prendi anche uno dei quei panni che mamma tiene lì per pulire ma non uno sporco mi raccomando!”

Mattia fece sì con la testa e corse verso le scale del box contento di essere utile a quel “piano di salvataggio”.

“Laura ma come fai a prenderlo? Se si muove….” Il dubbio di Valentina era condiviso da tutti gli atri.

“Provo!” Laura pregò che il loro piccolo amico non si spaventasse e che non la beccasse per difendersi dal pericolo.

Si avvicinò piano e allungò la mano lentamente per non innervosire il pennuto, ma questi si lasciò completamente andare al tocco delicato delle dita della ragazzina.

Si adagiò sul palmo delle sue mani senza mostrare alcun segno di combattività.

Laura guardò i piccoli occhi dell’animale che giaceva come se dormisse e realizzò la verità; era probabile che l’unica cosa che potessero fare era allungare la sua agonia.

In quel momento giunse Mattia trafelato per la corsa con in mano quello che lei gli aveva chiesto.

“Ecco!” disse madido di sudore e soddisfatto.

Laura lo guardò e non ebbe il coraggio. “Vieni Matti…metti il panno nella scatola e poi avvicinamela!”

Quando il bambino ebbe fatto, Laura adagiò l’uccellino che si lasciò andare nel cartone con la stessa arrendevolezza con cui si era lasciato prendere la prima volta.

“Ora aspettiamo che si riprenda ok?!” disse Laura rivolta agli altri.

Tutti annuirono, solo Sici mugugnò: “Sì va bene… ma per quanto? La pasta con le sarde…”

Tutti lo guardarono male e lui abbassò la testa, deluso dalla mancanza di comprensione e di appetito dei suoi amici.

“Forse dovremmo dargli un nome!” disse Marta.

“Mazzinga!” propose deciso Sici.

Altro sguardo di disapprovazione. “Ma secondo te ha la faccia da Mazzinga?” lo incalzò Valentina.

Sici alzò le spalle, rassegnato.

“Io pensavo a Cipì…come l’uccellino della storia!” propose Laura.

“Siiiiii!” approvò Mattia ricordandosi di colpo di cosa parlasse la sorella.

Rimasero lì altre due ore seduti in cerchio a giocare a carte e a “nomi, cose, città” con la scatola al centro per controllare il povero uccello, che non dava segni di ripresa.

Poi si spostarono verso il centro del cortile dove c’erano lo scivolo e le altalene.

Laura pensò attentamente a dove potessero lasciare la scatola per tenerla d’occhio ma senza fissarla, voleva che Mattia si distraesse.

La mise tra due cespugli sopra l’erba di modo che stesse all’ombra e raggiunse gli altri che si erano fiondati sui giochi.

Passavano da un divertimento all’altro con quella frenesia che solo l’infanzia possiede.

Ad un tratto si sentì la madre di Sici che lo chiamava a gran voce e il bambino, così contento che finalmente la sua pasta con le sarde lo reclamasse, corse d’istinto verso il balcone per avere conferma che, finalmente, era arrivato il momento di riempire lo stomaco.

Nella foga della corsa non si accorse che la scatola giaceva ancora all’ombra dei cespugli in direzione del palazzo, così che l’impatto con il suo piede fu inevitabile.

Ora, il povero uccellino era riverso sull’erba immobile.

Sici si portò la mano alla bocca e guardò ciò che aveva combinato con un espressione incredula.

Tutti si avvicinarono alla bestiola e Laura provò a toccarlo delicatamente ma.. nessun segnale di vita.

“Ma…è morto?” chiese Marta.

“Credo proprio di sì” disse Laura guardando Mattia ma intendeva che non c’erano dubbi.

“Sici…lo hai ammazzato…sei proprio un deficiente!” sbottò Valentina.

“Ma io…io ….non volevo…non l’ho visto!” si difese il bambino con le lacrime agli occhi.

Laura continuava a guardare il fratello che fissava l’uccellino con aria perplessa.

“Ma…mica per sempre?” la domanda sembrava frutto di una profonda riflessione.

“Cosa per sempre?” chiese Laura.

“Non è mica morto per sempre vero?”

Laura sospirò cosciente della bugia che stava per dire: “No…magari un giorno…” rispose.

Mattia sembrava soddisfatto della risposta, quasi sollevato.

Laura disse: “Dai andatevi a prendere un gelato…io vi raggiungo! Tieni i soldi Matti!”

Tutti si mossero tranne Sici, che rimaneva impalato a fissare la scena: “Dai Sici…vai a mangiare  che la pasta si raffredda…non ti preoccupare…lo sappiamo che non l’hai fatto apposta!” lo rincuorò la ragazzina.

Ancora non sapeva che, probabilmente, la sua maldestra goffaggine aveva compiuto un involontario atto di misericordia verso un esserino sofferente.

Ora c’era solo Laura, lei era la più grande del gruppo, era sempre stata intelligente, era lei a decidere nel gruppo quando c’era incertezza, era lei a badare a tutti, oltre che a sé stessa.

Prese il piccolo pennuto ormai senza vita, lo portò all’albero che stava al di là del cortile dove c’era il vecchio cancello rotto, scavò una buca abbastanza profonda con le mani e ve lo depose dentro.

Poi cercò un sasso appuntito e incise sul tronco: “CIPI’  16-07-1990”.

Rimase un attimo a guardare quella tomba improvvisata; pensò che oggi faceva davvero caldo.

In fondo, si sa, nel paese dei bambini non fa mai né troppo caldo né troppo freddo e non esiste la morte.

FINE

Ora aspetto i vostri racconti.

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Essere “letti”

22 Aprile 2020 by Silvia T. Nessun commento

Legittimazione? Gloria? Soldi?

Fermatemi o aggiungete opinioni, visto che avete sicuramente capito dove voglio arrivare. Ci ho pensato molto questa settimana, dopo aver letto tutti i vostri commenti sulle case editrici a pagamento. Anzi, colgo l’occasione per ringraziare tutti quelli che si sono espressi argomentando per il sì o per il no.

Perché volete essere letti? Perché volete fare gli scrittori? Nessuno v’impedisce di scrivere per il vostro piacere, evitando lo sbattimento di cercare case editrici, pubblicazioni, evitare le fregature.

Mi vorrei soffermare sul caso italiano che non prevede la scrittura come lavoro regolarmente retribuito per evitare la risposta più ovvia: “voglio guadagnare facendo quello che mi piace”. Strada difficile ma possibile in altri paesi; in Italia, non percorribile (salvo rarissime eccezioni) . Insomma, lo sapete tutti che non ci camperete scrivendo, vero?

Come al solito vi dico la mia, altrimenti non sarei qui a tenere un blog ma mi piacerebbe molto sentire le vostre opinioni (sincere, mi raccomando! Non lo faccio certo per giudicarvi, ormai lo dovreste aver capito.)

Io lo faccio per egocentrismo. Insomma, scrivo perché mi piace (ho tante di quelle idee in testa che mi entusiasma l’idea di crearci una storia sopra) voglio pubblicare perché desidero essere letta da quante più persone possibili e capire che cosa arriva loro di quello che ho scritto.

Vedete, io non ho grandi talenti. Mi sarebbe piaciuto saper suonare uno strumento o avere attitudine per la scienza (ho sempre avuto una fascinazione per le donne scienziate, tanto è vero che la mia protagonista in “Un momento di chiarezza” è un chimico) ma non ero portata.

Quando ero piccola mi veniva così naturale scrivere i temi a scuola o i miei pensieri che non immaginavo neanche di poter avere una predisposizione, che fosse una cosa particolare.

Fu la mia maestra a dirmi che potevo avere un “dono” di qualche tipo e poi boh… ero una bambina “poco visibile” (un po’ per il mio colorito pallido, un po’ perché ero strana e introversa e poi sono diventata un’adolescente incasinata quindi…) Scrivere era il mio mezzo per farmi vedere dal mondo però non facevo leggere a nessuno quello che scrivevo. Controsenso? Ero giovane!

E poi mi sono liberata dalla mia bassa autostima e sapere che la gente leggeva quello che scrivevo era fichissimo!

“Un momento di chiarezza” è stato la mia gioia. Avevo scritto un libro. Cavolo, dovevo farlo leggere! Le opzioni erano due: o quello che avevo scritto poteva essere buono e sarebbe piaciuto o poteva fare schifo e avrei fatto un bel tonfo. Ma un tonfo epico! Valeva la pena tentare.

Conosco anche delle persone che scrivono e sono felici perché solo gli amici e i parenti potranno leggere i loro scritti. Valgono di meno? Scrivono peggio? No di certo.

Per questo vi dico sempre che le persone sono diverse e gli scrittori, beh… in un modo o nell’altro sono un po’ egocentrici, hanno bisogno di essere “visti” ma ognuno a modo suo.

Non mi piacciono i luoghi comuni, quindi non vi dirò che il mondo è bello perché è vario ma il mondo della scrittura ci guadagna sempre dalla diversità e dalla creatività, anche quella che non si vede tanto.

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Donne e Letteratura: un passo indietro?

29 Gennaio 2020 by Silvia T. Nessun commento

Ebbene sì, ho deciso di parlarvi anch’io del famoso scivolone di Amadeus ma non lo farò come gli altri perché non sarebbe la sede adatta. Qui parliamo di libri, di scrittori e scrittrici. E così sarà anche stavolta.

Ma vi prego, per queste poche righe, lasciatemi fare un po’ di polemica perché, lo sapete, su questo blog mettiamo anche al bando pregiudizi e luoghi comuni che non ci piacciono proprio (almeno a me e, visto che scrivo io…).

Perché si presuppone che una donna bella/bellissima non sia anche intelligente e capace? Io conosco tante belle/bellissime donne con un gran cervello, creative, forti, organizzate ecc… E conosco belle donne con la profondità emotiva di una pozzanghera.

Il punto non è questo ovviamente. Nel momento in cui una donna viene valutata solo sul suo aspetto fisico anche in relazione ad altre capacità e competenze, sbagliamo alla grande. Misurereste l’altezza in chili?

E’ evidente che Amadeus ha fatto uscire, molto stupidamente devo ammettere, visto che con quello che lo paga la Rai poteva prepararsi due righe per presentare le sue “ragazze” (chi sono poi le Charlie’s Angels?): il criterio di selezione per andare a Sanremo è la bellezza. Puoi essere intelligente, sveglia, capace ma per andare a Sanremo conta che tu sia bella. Il segreto di Pulcinella è svelato.

Comunque, torniamo alla nostra materia: Letteratura. E’ incredibile pensarlo ora che andiamo nello spazio, dirigiamo multinazionali, veniamo elette Presidenti ma, c’è stato un tempo (buio, molto buio) in cui le donne non potevano scrivere alla luce del sole perché non erano uomini.

Nessuno riteneva le donne capaci di creare storie, poesie e di svolgere lavori di concetto. Molte non venivano neanche istruite, a che serviva? Il loro compito nella società era sposarsi, avere figli, prendersi cura della famiglia e dei loro uomini. Non potevano mica mettersi a scrivere. E sapete cosa hanno fatto le donne? Hanno scritto lo stesso. Ovviamente.

Si sono inventate pseudonimi e identità fantasma (maschili) solo per fare quello che amavano, anche se, forse, mai nessuno avrebbe saputo che quelle erano le loro opere. Penso a Jane Austen, che non riuscì mai a vedere il suo nome su un libro quand’era vita e mi fa molta tristezza. Era un genio delle letteratura a cui non è mai stato riconosciuto il valore che meritava. La stupidità umana può essere infinita…

Spostiamo un attimo il focus sui nostri giorni. Una volta ho partecipato a un incontro dove veniva analizzata la questione “letteratura femminile”. Già la sottocategoria mi sembrava assurda (per me la letteratura è una) ma, dopo la mia esperienza di pubblicazione, mi sono resa conto che qualcosa sul fondo c’è ancora.

Un pregiudizio che ci fa pensare che un libro scritto da una donna possa trattare solo un certo genere di argomenti: di norma, una bella storia romantica dove l’eroina cerca l’amore e poi, dopo mille ostacoli, lo conquista.

Spesso ero restia a rispondere alla domanda: “di che genere è il tuo libro?”. Questo perché, se dovessi mettere il mio libro su uno scaffale di una libreria, lo posizionerei tra i romanzi, ma chi l’ha letto sa benissimo che la mia non è la classica storia d’amore. Ma è quello che tutti pensano, soprattutto gli uomini.

Lo vedevo nel cambio d’espressione quando rispondevo: “è un romanzo”. Per non parlare poi, di quelli che mi dicevano apertamente che i romanzi non erano il loro genere.

E così si forma una divisione anche tra i lettori: statisticamente, i libri delle donne vengono letti più dalle donne (che poi siano le donne a leggere di più in Italia rispetto agli uomini è un altro dato).

Se avessi un euro per tutti quelli che mi hanno detto “se vuoi vendere tanto devi scrivere una bella storia d’amore, magari con i vampiri o qualche essere soprannaturale”, non dovrei più cercare lavoro.

E’ incredibile pensare questo soprattutto se allarghiamo la lente su scala mondiale. A livello internazionale, le tre saghe che hanno venduto di più, Harry Potter, Cinquanta sfumature di grigio e L’amica geniale, sono scritte da donne (dai, la Ferrante è una donna, si sa!).

Ora voglio parlare un attimo di me, della mia esperienza come lettrice. Io ho sempre letto uomini e donne, senza mai pormi il problema.

La prima grande eroina letteraria con cui sono venuta in contatto è la protagonista del primo libro che letto: Piccole donne. Un libro scritto da una donna che parla di donne.

Ero una bambina ma mi identificavo con Jo, per tanti motivi che ora non sto qui a spiegarvi. Mi sono molto stupita nel sapere, in seguito, che la Alcott fu molto criticata per il finale che aveva dato a questo personaggio.

Allerta spoiler! Alla fine Jo, dopo aver imperversato per pagine e pagine, affermando di “non essere fatta per il matrimonio”, si innamora e si sposa. Questa era vista come una discrepanza tra personaggio fino ad allora descritto e come un tradimento all’ideale femminista a cui il libro sembrava votato.

Quindi una scrittrice non può essere anche una moglie (è vero che poi Jo sposa un uomo intelligente che la supporta nel suo percorso e questo fa la differenza, secondo me)? E’ sempre il solito discorso. Una cosa esclude l’altra? Meg, che da subito vuole sposarsi e avere una famiglia e si ritrova a mandarla avanti in un mondo di uomini senza mezzi economici, è meno femminista di Jo?

Alla fine del romanzo Jo si sposa, è vero. Cambiando idea, è vero (come se non ne avessimo il diritto!). Ma pubblica il suo libro (e non si esclude che ne potrebbe pubblicare altri in futuro) e apre una scuola dove insegna a maschi e femmine senza distinzione. Se immagino la vita di Jo dopo la fine del romanzo, la vedo difficile e complicata, come quelle di tutte le persone che fanno molte cose contemporaneamente.

Le donne in letteratura non hanno mai fatto un passo indietro, anche quando la società glielo imponeva. Ora, grazie a loro, io posso pubblicare un libro con il mio nome in copertina. Non torniamo indietro.

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La luce all’inizio del tunnel: ricominciare a scrivere

4 Dicembre 2019 by Silvia T. Nessun commento

Vi posso assicurare che ci saranno giorni brutti. Molto brutti. Ci sono, nella vita di tutti. Ma per voi, cari colleghi scrittori, saranno ancora peggio. E non perché abbiamo l’oligopolio delle emozioni ma perché abbiamo una dannata ostinazione a cercare di capire. Dobbiamo meticolosamente passare al vaglio ciò che proviamo, capirne le ragioni e ovviamente chiederci fino all’ossessione se sia giusto che stia capitando a noi.

Ma, come mi disse una mia insegnante alle superiori, alcune cose sono così e basta e vanno accettate. Perché c’è un momento in cui ti crolla tutto addosso e ti sembra che possa solo peggiorare. E questo è il momento in cui dovete scrivere.

Non dico che uno scrittore felice non possa scrivere qualcosa di buono ma uno scrittore a cui le cose non vanno bene, scrive “grandi cose”. Accetto la diatriba che potrebbe scatenare questa affermazione. Ma i grandi scrittori del passato ci hanno lasciato una grande lezione: nella sofferenza c’è creatività.

Per vari motivi, questa è la situazione in cui mi trovo ora. Per cui, eccola qua la scintilla creativa. E’ora di ricominciare a scrivere. Solo che ora devo trovare il modo d’incanalare queste sensazioni in una storia, perché voglio scrivere un altro libro, non un altro diario.

Per fare questo, ho tentato di rientrare in contatto con persone che scrivono e ho notato una cosa che mi ha lasciato perplessa: c’è una tendenza generale a sottolineare l’importanza delle emozioni nei corsi di scrittura. Così nascono incontri interdisciplinari tra il coaching e la scrittura creativa. E mi chiedo: ma tutta la scrittura non è un confrontarsi con le proprie emozioni? Non esiste una scrittura di qualità (o che prova a esserlo) senza questo processo.

Quando ho scritto il primo capitolo di “Un momento di chiarezza”, non sapevo che fosse l’inizio di qualcosa. Mi sono svegliata una domenica mattina più stanca di come ero andata a letto; soffrivo per amore, per il lavoro, per la prospettiva che non sarei mai riuscita a finire uno dei miei tremila romanzi incompiuti. Volevo creare un alter ego a cui andasse tutto male ma che fosse talmente indurita dalla vita da sbattersene di tutto. La nascita di Daisy è imputabile al mio egoistico desiderio di scaricarle addosso parte (se non tutta, non mi offendevo!) della mia sofferenza.

Io non avevo fatto nessun percorso per capirmi meglio, per esprimere e accettare le mie emozioni ecc… Ho scritto e, visto il mio stato d’animo dei tempi, il primo capitolo non si poteva svolgere durante il carnevale di Rio de Janiero.

Però io avevo l’ironia, il sarcasmo. Beato sarcasmo che tutto protegge e rende ridicolo! Vedere il lato comico di quello che scrivevo me lo faceva vedere anche nella vita reale. Ed è così che la scrittura mi ha salvato (quella volta ma non è stata l’unica).

Il mio consiglio è: se vedete la luce davanti al tunnel andatele incontro, forse è l’inizio di qualcosa, forse no. Non chiedetevelo adesso. Dopo sarà programmazione e revisione e tutto quello di cui abbiamo parlato in questo manuale. Ma la scintilla, lasciamola libera e vediamo dove ci porta.

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