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Manuale

Il tempo narrativo

7 Giugno 2022 by Silvia T. Nessun commento

Era giugno.

Nel giro di dieci giorni, mi ritrovai senza lavoro e fidanzato. Stavo vivendo un bel momento che è finito di colpo, lasciandomi a terra.

Mi chiusi in casa per capire quale poteva essere la prossima mossa, se c’era “una prossima mossa” e mi sono lasciata andare.

Finché un giorno, mi alzai dal letto e pensai che avevo piagnucolato per due anni perché volevo scrivere un altro libro ma non avevo avuto il tempo che mi serviva per farlo bene.

E in quel momento, finalmente, ce l’avevo.

Era il momento di ricominciare a scrivere.

E questo è l’inizio di una grande storia 😉

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Manuale

Il ricordo

7 Giugno 2020 by Silvia T. 2 commenti

Probabilmente l’avrete già sentito da qualche parte, soprattutto se scrivete da un po’ di tempo ma “l’atto di ricordare cambia il ricordo stesso“.

Ve ne sarete accorti; spesso raccontiamo lo stesso evento ma con dettagli diversi, a volte addirittura contrastanti. Questo perché la nostra memoria, soprattutto con il passare del tempo, tende a sfocare lo sfondo per concentrarsi sugli eventi principali. Quello che raccontiamo o che scriviamo è la nostra rielaborazione di un particolare ricordo.

Ciò che, invece, rimane stampato nella nostra mente è la sensazione che provavamo in quel determinato momento e questo influisce anche sulla selezione dei dettagli che la nostra memoria si porta dietro.

Per questo oggi voglio fare una cosa diversa, darvi un esercizio pratico, perché va bene la teoria ma, di fatto, uno scrittore deve scrivere.

Il modo in cui rielaboriamo ci rende unici ed è questo che vorrei che faceste: pensate a un momento della vostra infanzia che vi ha dato un’emozione (gioia, dolore, rabbia, solitudine, felicità…) e scriveteci un racconto. Concentratevi su ciò che provavate e non sugli eventi.

Questo è il racconto che ho scritto io quando mi è stata chiesta la stessa cosa ed è anche la prima cosa scritta da me che sia mai stata pubblicata (dalla rivista letteraria Paginauno). E’ liberamente tratto da un ricordo reale della mia infanzia.

NEL PAESE DEI BAMBINI

Sembravano essere lì da sempre e forse era proprio così; messi lì apposta come statuine di un presepe per dare anima a quell’insieme di palazzi.

Era ormai quella disomogenea combriccola di ragazzini a dare orari, suoni e colori all’intero del quartiere, come il motore che alimenta la macchina.

Cominciavano a comparire un po’ alla volta nel cortile già al mattino, ora che era estate, con i loro calzoncini corti e le canotte colorate; si ritiravano nella tana per pranzare o cenare e poi eccoli di nuovo lì, senza scopo né noia, a gironzolare tutto il pomeriggio o seduti a parlare sulle panchine fino a tarda sera.

In quell’afosa giornata di luglio si stavano tirando la palla nello spiazzo davanti alla portineria; l’asfalto era piegato dal calore intenso e i vestiti rimanevano appiccicati al corpo come attratti da una calamita.

Eppure, la piccola comitiva non sembrava risentire dell’infernale temperatura di mezzogiorno. In fondo si sa: nel paese dei bambini non è mai né troppo caldo né troppo freddo!

Valentina, la più alta e scaltra del gruppo, si lanciò per afferrare la palla lanciata malamente da Mattia.

“Ma che si fa, non si va a mangiare?” chiese Sicilia, soprannominato così per la provenienza geografica.

Si era trasferito a Milano solo da pochi mesi e da allora era stato ribattezzato da Laura con il nome della terra natia perché nessuno riusciva mai a ricordarsi quello vero; avevano ritenuto più facile presentarlo come “Lui è Sicilia, per gli amici Sici!”

Impossibile da dimenticare!

“Aspettiamo che ci chiamino!” rispose Laura.

Sici fece una smorfia di disappunto “Speriamo presto allora, mia madre oggi ha fatto la pasta con le sarde!”

“Che schifo!” sbottò Marta.

Marta era piuttosto bassina per la sua età e con qualche chilo di troppo, ma era molto agile e tra loro era l’unica che riuscisse a risalire lo scivolo al contrario, motivo di indiscusso vanto.

“Cosa sono le sarde?” chiese Mattia perplesso.

Sici scrollò le spalle. “Una cosa buona che si mette nella pasta…non lo so esattamente, mia madre dice cittu e mangia!”

Tutti presero per buona la definizione della sarda della madre di Sici.

Marta tirò la palla a Mattia con tutta la potenza di cui era capace ma lui, distratto da uno stormo di uccelli che si levava in quel momento, la fermò con la faccia.

Laura si avvicinò subito al fratello minore: “Oh Matti, ti sei fatto male?” chiese.

“Mmmm…” mugugnò Mattia tenendosi la guancia con una mano; Laura gliela scostò delicatamente e lo vide arrossarsi di colpo e gonfiarsi leggermente.

“No dai non è niente, è la botta, ora si sgonfia! Cavolo Matti, stai attento, adesso se mamma ti vede con quella faccia sai quanto mi rompe! Dai Sici ricominciamo da te!”

Sici riprese la palla e la lanciò in aria senza direzione; quella partì come attaccata ad un razzo e si andò ad appoggiare con un sonoro rimbalzo proprio sul tetto della portineria.

“Allora tu sei nato scemo Sici! Ora ci vai tu a bussare a Carmelo!” sentenziò Valentina.

“No dai Vale…quello mi fa paura!”

E, come evocato, sulla soglia apparve Carmelo, il portinaio, con la sua camicia bianca sudaticcia a coprire la grossa pancia, la testa calva al centro e i baffoni da narcotrafficante colombiano.

“Che avete combinato?” disse in un italiano sgrammaticato.

“Carmelo, ci è finita la palla sul tetto…non ce la puoi prendere?” chiese Laura.

Carmelo scosse la testa. “No è troppo alto, non ci arrivo!”

“Ma con la scala ci arrivi… se vuoi ci vado io!” ribatté Marta.

“No, non si può!” Carmelo si pronunciò ponendo fine alla discussione.

Aveva quello sguardo che evitava ogni tipo di obiezione.

Da tempo ormai tutti avevano capito come funzionava la giurisdizione condominiale: per qualche strana ragione tutto ciò che finiva all’interno del perimetro della portineria diventava automaticamente di proprietà di Carmelo.

In quale antica consuetudine affondasse le radici questa legge a tutt’oggi risulta un mistero!

“Bella Sici davvero! Altra palla persa per sempre!” si complimentò ironicamente Valentina.

“Beh però era un bel tiro…dieci punti almeno!”
“Peccato che non stavamo giocando a punti! E ora che si fa?”

“Campana?” propose non troppo convinta Marta.

“Ma l’abbiamo già fatta stamattina! Lupo mangia frutta?” ipotizzò Laura.

“No… ho già fame così!” borbottò Sici.

“Che palle! Mangiati uno di quei fiori della Madonna…sono zuccherini lo sai, almeno ti bloccano la fame per un po’!” intervenne Mattia.

“Dai facciamo un due tre stella allora? Andiamo sotto il mio portico!” tagliò corto Laura.

Appena arrivati videro una delle loro mamme con ancora le ciabatte addosso e l’aria agguerrita che usciva dal portone.

“Laura…Mattia…è mezz’ora che vi chiamo dal balcone! Dove eravate? E’ pronto da mangiare! Ma Matti” disse notando il volto del ragazzino arrossato “che ti è successo in faccia? Sei viola!”

“Niente mà, è solo un po’ rosso, gli è arrivata una palla in faccia mentre giocavamo!” rispose Laura per il fratello senza menzionare l’autrice del tiro maldestro.

“E tu dov’eri?” chiese la madre rivolta alla bambina.

Laura roteò gli occhi verso l’alto senza emettere fiato, da tempo sapeva che non c’era una risposta giusta a quel genere di domande.

Tentò di cambiare argomento: “Mamma, stamattina Gennaro ci ha buttato giù di nuovo le bistecche! Ci stava quasi beccando!”

“Quell’uomo è malato Laura…con quello che sta la carne al chilo…” disse tastando delicatamente la guancia del figlio.

“Ma mamma…”

“Sì sì” disse la madre dopo essersi accertata che il danno fosse solo superficiale “ magari se voi la smetteste di fare casino sotto la sua finestra la sera…comunque lo dirò a Carmelo…vediamo! Che fate salite a mangiare o no?”

“Io non ho fame” disse Laura.

“Io vengo dopo mà!” si associò Mattia.

“Va bene…” disse la madre riaprendo il portone e mentre andava via “e tu Matti…tieni la faccia lontana dalle palle!”

Il gruppetto sghignazzò.

La madre scosse la testa rendendosi conto in ritardo del doppio senso della sua frase e poi, rassegnata, si trascinò con le sue pantofole fino all’ascensore.

I ragazzi rimasero lì sotto e cominciarono a giocare.

Laura contava: “Uuunnnn….duuue…tre.. stella!”

E si voltò velocemente per percepire un movimento ma rimase colpita dall’espressione di Sici; sembrava stesse soffiando, strabuzzava gli occhi ed era tutto rosso.

“Sici sei fuori!” disse.

“Ma non mi stavo muovendo!” piagnucolò il bambino.

“Si ma con quella faccia da scemo non puoi giocare, mi distrai! Non vedo gli altri!”

“Uffa…lo sapevo che facevo meglio ad andare a mangiare!”

 Laura si girò di nuovo e ricominciò a contare…

“Uuuuuuno….du..”

All’improvviso si sentì il rumore di qualcosa che sbatteva con violenza contro il muro dove Laura era appoggiata a contare.

La bambina si voltò di colpo e cercò con gli occhi l’oggetto che aveva provocato l’urto.

Vide qualcosa per terra e si avvicinò; in un secondo anche tutti gli altri si ritrovarono intorno all’oggetto non identificato.

“Gennaro ci ha tirato qualcosa?” chiese Sici spaventato.

“Dall’ottavo piano dell’altro palazzo, non ci arriva qui!” rispose Valentina.

Laura guardò con attenzione: “E’ un uccellino!”

“E’ vivo?” chiese Marta.

Laura lo sfiorò appena con il mignolo e l’uccellino si rimise sulle zampe…fece due passi e tentò di volare ma cadde di nuovo.

“Credo che abbia un’ala spezzata!” affermò Laura.

“Poverino!” disse Mattia “ Laura fai qualcosa, aiutalo!”

Laura non aveva la minima idea di come fare ad aiutare la povera bestiola, stava per annunciarlo al gruppo quando incrociò lo sguardo del fratello che sembrava sul punto di piangere.

“Dai Matti” disse cercando di ragionare in fretta “vai nel garage…prendi una scatola da scarpe e svuotala.. e prendi anche uno dei quei panni che mamma tiene lì per pulire ma non uno sporco mi raccomando!”

Mattia fece sì con la testa e corse verso le scale del box contento di essere utile a quel “piano di salvataggio”.

“Laura ma come fai a prenderlo? Se si muove….” Il dubbio di Valentina era condiviso da tutti gli atri.

“Provo!” Laura pregò che il loro piccolo amico non si spaventasse e che non la beccasse per difendersi dal pericolo.

Si avvicinò piano e allungò la mano lentamente per non innervosire il pennuto, ma questi si lasciò completamente andare al tocco delicato delle dita della ragazzina.

Si adagiò sul palmo delle sue mani senza mostrare alcun segno di combattività.

Laura guardò i piccoli occhi dell’animale che giaceva come se dormisse e realizzò la verità; era probabile che l’unica cosa che potessero fare era allungare la sua agonia.

In quel momento giunse Mattia trafelato per la corsa con in mano quello che lei gli aveva chiesto.

“Ecco!” disse madido di sudore e soddisfatto.

Laura lo guardò e non ebbe il coraggio. “Vieni Matti…metti il panno nella scatola e poi avvicinamela!”

Quando il bambino ebbe fatto, Laura adagiò l’uccellino che si lasciò andare nel cartone con la stessa arrendevolezza con cui si era lasciato prendere la prima volta.

“Ora aspettiamo che si riprenda ok?!” disse Laura rivolta agli altri.

Tutti annuirono, solo Sici mugugnò: “Sì va bene… ma per quanto? La pasta con le sarde…”

Tutti lo guardarono male e lui abbassò la testa, deluso dalla mancanza di comprensione e di appetito dei suoi amici.

“Forse dovremmo dargli un nome!” disse Marta.

“Mazzinga!” propose deciso Sici.

Altro sguardo di disapprovazione. “Ma secondo te ha la faccia da Mazzinga?” lo incalzò Valentina.

Sici alzò le spalle, rassegnato.

“Io pensavo a Cipì…come l’uccellino della storia!” propose Laura.

“Siiiiii!” approvò Mattia ricordandosi di colpo di cosa parlasse la sorella.

Rimasero lì altre due ore seduti in cerchio a giocare a carte e a “nomi, cose, città” con la scatola al centro per controllare il povero uccello, che non dava segni di ripresa.

Poi si spostarono verso il centro del cortile dove c’erano lo scivolo e le altalene.

Laura pensò attentamente a dove potessero lasciare la scatola per tenerla d’occhio ma senza fissarla, voleva che Mattia si distraesse.

La mise tra due cespugli sopra l’erba di modo che stesse all’ombra e raggiunse gli altri che si erano fiondati sui giochi.

Passavano da un divertimento all’altro con quella frenesia che solo l’infanzia possiede.

Ad un tratto si sentì la madre di Sici che lo chiamava a gran voce e il bambino, così contento che finalmente la sua pasta con le sarde lo reclamasse, corse d’istinto verso il balcone per avere conferma che, finalmente, era arrivato il momento di riempire lo stomaco.

Nella foga della corsa non si accorse che la scatola giaceva ancora all’ombra dei cespugli in direzione del palazzo, così che l’impatto con il suo piede fu inevitabile.

Ora, il povero uccellino era riverso sull’erba immobile.

Sici si portò la mano alla bocca e guardò ciò che aveva combinato con un espressione incredula.

Tutti si avvicinarono alla bestiola e Laura provò a toccarlo delicatamente ma.. nessun segnale di vita.

“Ma…è morto?” chiese Marta.

“Credo proprio di sì” disse Laura guardando Mattia ma intendeva che non c’erano dubbi.

“Sici…lo hai ammazzato…sei proprio un deficiente!” sbottò Valentina.

“Ma io…io ….non volevo…non l’ho visto!” si difese il bambino con le lacrime agli occhi.

Laura continuava a guardare il fratello che fissava l’uccellino con aria perplessa.

“Ma…mica per sempre?” la domanda sembrava frutto di una profonda riflessione.

“Cosa per sempre?” chiese Laura.

“Non è mica morto per sempre vero?”

Laura sospirò cosciente della bugia che stava per dire: “No…magari un giorno…” rispose.

Mattia sembrava soddisfatto della risposta, quasi sollevato.

Laura disse: “Dai andatevi a prendere un gelato…io vi raggiungo! Tieni i soldi Matti!”

Tutti si mossero tranne Sici, che rimaneva impalato a fissare la scena: “Dai Sici…vai a mangiare  che la pasta si raffredda…non ti preoccupare…lo sappiamo che non l’hai fatto apposta!” lo rincuorò la ragazzina.

Ancora non sapeva che, probabilmente, la sua maldestra goffaggine aveva compiuto un involontario atto di misericordia verso un esserino sofferente.

Ora c’era solo Laura, lei era la più grande del gruppo, era sempre stata intelligente, era lei a decidere nel gruppo quando c’era incertezza, era lei a badare a tutti, oltre che a sé stessa.

Prese il piccolo pennuto ormai senza vita, lo portò all’albero che stava al di là del cortile dove c’era il vecchio cancello rotto, scavò una buca abbastanza profonda con le mani e ve lo depose dentro.

Poi cercò un sasso appuntito e incise sul tronco: “CIPI’  16-07-1990”.

Rimase un attimo a guardare quella tomba improvvisata; pensò che oggi faceva davvero caldo.

In fondo, si sa, nel paese dei bambini non fa mai né troppo caldo né troppo freddo e non esiste la morte.

FINE

Ora aspetto i vostri racconti.

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Come scrivere del Covid?

30 Maggio 2020 by Silvia T. Nessun commento

Non scrivendo del Covid. Non vi preoccupate, ora vi spiego.

Mi è capitato di vedere su alcuni gruppi di scrittori e lettori a cui sono iscritta, dei post dove le persone affermano che non leggerebbero mai un libro sul Covid, perché non vorrebbero mai rivivere questo periodo.

Lungi da me dire alle persone cosa leggere ma una cosa che posso fare è parlare agli scrittori: voi dovete scrivere del Coronavirus.

Lo so, il pubblico è sovrano ma, nel tempo, le cose cambieranno. Le persone vorranno leggere di qualcosa che hanno vissuto e i bambini che oggi hanno vissuto chiusi nelle case, inconsapevoli di ciò che stava accadendo fuori, vorranno sapere, conoscere.

Noi siamo sopravvissuti a una pandemia e siamo scrittori. Siamo la memoria delle generazioni future. Non hanno scritto delle guerre perché è triste? Non sono stati pubblicati libri sull’Olocausto perché era deprimente? Non scherziamo, ragazzi. Abbiamo l’opportunità di raccontare un’esperienza umana potente vissuta praticamente da tutto il mondo. Non abbiamo più Calvino, Sepulveda o Shakspeare per scriverne. Ci siamo noi e abbiamo il dovere morale di trasmettere la storia e la Storia.

Abbiamo già parlato di come, nel tempo, gli scrittori abbiano raccontato le epidemie e la malattia. Lo hanno fatto con ingegno, creatività, ognuno in modo diverso (perché come abbiamo già detto, la vera novità sta nel “come” si scrive, non nel “cosa”).

E poi, io credo che non si debba parlare necessariamente solo di dolore e morte quando si scrive del Covid o delle cose brutte in generale.

La vita è un pacchetto completo. Si scrive della morte per scrivere della vita, si scrive del dolore per scrivere della felicità. Siamo parte di una contorta quanto perfetta bilancia in cui tutto si completa. Sarebbe assurdo escluderne una parte. Ci saranno scrittori che ci faranno ridere e distrarre dalla vita reale. Ne abbiamo bisogno. E ci saranno quelli che ci faranno piangere e riflettere. E ne abbiamo bisogno in egual modo.

Non escludo poi che ci saranno scrittori che ci faranno ridere e piangere insieme. Io spero di riuscire a farlo, perché credo che la vita sia così. Come scrive Rilke:

“Lascia che tutto ti accada: bellezza e terrore. Si deve sempre andare: nessun sentire è mai troppo lontano.“

In definitiva, io vi chiedo di scrivere del Covid senza scrivere del Covid. Cercate punti di vista nuovi, modi di rielaborare questa pandemia come una parte della vita umana. E avremo una testimonianza, la vostra narrazione di questo momento che stiamo vivendo.

Scrivete!

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Manuale

Il tuo “io” interiore

1 Aprile 2020 by Silvia T. Nessun commento

L’altro giorno ho visto la pubblicità di un tizio che vendeva servizi letterari. Aveva la giacca e la cravatta e prometteva di aiutare gli scrittori a organizzare il proprio “tempo” secondo un calendario ben preciso, così da poter scrivere un libro nel più breve tempo possibile.

Questo mi ha fatto pensare che devo passare meno tempo sui social durante questa quarantena, perché mi trovo in disaccordo con la maggior parte delle cose che leggo e seconda cosa…. che devo dare retta al mio “io” interiore.

L’altra sera, in uno dei miei momenti di meditazione e comunione con me stessa (nooo, scherzo, non ho mai momenti così) ho avuto un’illuminazione. Ascoltavo una canzone degli Evanescence del 2009 e, insomma, quando ascolti la tua musica da “giovane”, c’è sempre una parte di te che ritorna a quel momento. Ma non è questo il punto.

Il punto è che ascoltare musica di quando ero adolescente e non sapevo chi ero, mi fa capire quanto sia importante quello che ho capito negli anni: opporre meno resistenza alla mia natura è stata la mia salvezza, a un certo punto.

Cosa c’entra con la scrittura e con l’inizio di questo articolo? Parecchio.

Io invidio profondamente le persone che possono permettersi di “progettare” la scrittura di un libro ma non penso sia veramente possibile.

Questo perché per scrivere, il tuo “io” interiore deve essere sintonizzato con te. E questo non avviene programmando un incontro con Outlook.

Che cos’è l'”io” interiore? Beh, io non sono un dio o un guru, quindi non posso darvi delle risposte trascendentali. Posso parlarvi dell’ “io” scrittore però…

E’ quella voce dentro di voi (sì, siete un po’ pazzi ma in buona compagnia) che vi dice: “Ora si scrive”. Per quanto tu possa cercare di darti uno schema, una routine, delle scadenze, l’ultima parola è sempre la sua.

Lo è quando stai davanti a un computer da ore e hai scritto tre parole e lo è quando alle tre di notte ti viene in mente esattamente come puoi scrivere un capitolo.

E non fate finta di non sentirla. Opponete meno resistenza possibile alla vostra natura di scrittori. Forzarsi per non vedere questa parte di se stessi è… estenuante. Credetemi, ve lo dico per esperienza personale. E vi travolgerà la stesso. E poi, dai, essere dei creativi un po’ scombinati non è così male.

Pensate adesso che siamo in quarantena. Il mio “io” interiore che è anche sarcastico (d’altronde è il mio, non mi potevo aspettare altro) mi sta ripetendo in continuazione: “Allora, Shakespeare in quarantena per la peste scrisse Re Lear, che vogliamo fare? Imparare a fare la pizza a casa? Scrivi!”

E ha ragione, cavolo!

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Dacci oggi il nostro pane quotidiano

7 Agosto 2019 by Silvia T. Nessun commento

Esistono due tipi di scrittori:  il primo butta fuori tutto quello che ha dentro per poi correggerlo in fase di revisione, il secondo sceglie minuziosamente le parole e non va avanti finché la frase non è perfetta.

Non credo che esista un modo giusto di scrivere; posso dirvi che io faccio parte della prima categoria. Aiutata (?) soprattutto dal fatto di avere poco tempo per scrivere (praticamente la prima stesura è avvenuta su un quadernino a quadretti grandi in un bar), ho cercato di impostare le cose principali, prima che le dimenticassi.

Era il posto giusto? Credo proprio di no. Ma siamo arrivati al traguardo, quindi…

A volte, (e questa è una mia parentesi personale) ci facciamo bloccare da parole che sono molto più flessibili di quello che crediamo.”Giusto” ad esempio: stiamo facendo qualcosa nel modo giusto? E’ la persona giusta per noi? Non credo che esista un modo di giusto di scrivere (Joyce non usava la punteggiatura) né una persona, se proprio volete saperlo. La persona giusta diventa giusta quando vi scegliete e funziona. Ecco, per citare Woody Allen direi: “Basta che funzioni”. Insomma, ci sono cose che nascono perfette e non funzionano e cose che, invece, fanno una presa che non credevamo. A volte, succede.

Perché mi sto infilando in questo vaneggiamento? Perché in queste poche righe volevo affrontare l’annosa questione del dove, quando e quanto scrivere.

I più fortunati di noi (non io ovviamente) potrebbero ritrovarsi a dover decidere tutte e tre queste cose. In linea di massima, io vi consiglio di scrivere tutti i giorni ma di non farlo diventare un’ossessione se quel giorno non vi viene niente. Gli scrittori sono persone, non macchine; può essere che, dopo aver lavorato otto ore, vi venga fuori una sola riga e neanche tanto bellina. Sempre Joyce, una volta scrisse : “Oggi sono contento. Ho scritto una riga”. E stava per regalare al mondo l‘Ulisse, non il manuale delle giovani marmotte.

In generale, per noi che, non so, lavoriamo a tempo pieno, ci dobbiamo occupare dei nostri sette figli (sette?! Mio Dio!), che siamo impossibilitati a crearci un’agenda solo sulle nostre esigenze, direi che la cosa migliore è scrivere quando si ha un po’ di tempo libero e la mente più fresca. Lo so, non è facile vero?

E cominciamo a sgretolare l’errata convinzione che scrivere sia un mestiere facile. Non lo è. Se hai passione e voglia, sarà meno duro ma comporta comunque un dispendio di tempo ed energie.

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