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Manuale

Il processo

28 Novembre 2020 by Silvia T. Nessun commento

Non ero neanche una ragazzina quando la mia classe venne invitata a visitare il comune e a incontrare il sindaco in carica ai tempi. In quei giorni, accadde il primo e unico stupro (denunciato) del nostro comune di cui io abbia memoria. Era una signora sulla cinquantina e il fatto avvenne nella via parallela a quella in cui vivo attualmente, una sera molto tardi.

Ci sedemmo tutti intorno al grande tavolo, dove i “potenti” della nostra città prendevano le decisioni che contavano. E il sindaco ci parlò di come la comunità stesse vivendo questo terribile crimine. E mi ricordo chiaramente che disse “Ma adesso chiediamoci tutti, che cosa ci faceva una donna da sola per strada a quell’ora?”

Pensavo di non aver capito bene ma quando vidi tutti annuire intorno a me (da tanto sindaco, non potevamo aspettarci una giunta pensante), capii due cose: che dalla politica italiana non mi sarei mai potuta aspettare un ragionamento con un minimo di decenza e che il mondo funziona al contrario. Ma come, lei è stata violentata e la colpa è la sua? A me venne spontaneo domandare: “ma chiediamoci tutti, è questa la domanda da porci?”

Da allora in poi, ho cominciato una personale battaglia contro questo comportamento, il processo alla vittima. Sì avete letto bene. Sembra assurdo, una contraddizione in termini. Ma, di fatto, è questo che facciamo. E ammetto il fallimento; nonostante io abbia cercato di divulgare questo concetto, vedo che non ha attecchito minimamente.

Proprio in concomitanza con la Giornata contro la violenza sulle donne, è arrivata l’ennesima prova della stupidità umana (Einstein, avevi decisamente ragione!). E io sono indignata, sconvolta e incazzata come donna ma prima di tutto come persona. Sì, perché le donne sono persone. E quando dicono no non vuol dire sì. Vuol dire no. Mi sento anche un po’ idiota a scrivere una banalità come questa ma tant’è…

E mi riferisco allo stupro e alla tortura subiti da una diciottenne da parte del fondatore di Facile.it , che non merita l’appellativo di persona. Ma non vorrei soffermarmi solo all’intervento di Feltri in merito alla questione, anche perché ormai il livello intellettivo di Feltri è paragonabile a quello di Angela da Mondello. Vorrei parlare delle persone comuni che si sono scagliate contro la vittima. Perché si sta facendo ancora il processo alla vittima.

Ho letto dei commenti che mi hanno fatto venire voglia di chiudere l’Internet, tutto. Cosa ci faceva li’? Perché era alla festa di un imprenditore? Perché è entrata nella stanza? Una signora chiedeva addirittura ai genitori della ragazza come l’avevano educata per farla diventare una che andava a quelle feste. Un brivido di terrore mi ha attraversato la schiena, quando ho pensato che questa donna potrebbe avere un figlio maschio che sta allevando con queste idee.

Scusate, ancora una volta, sono le domande giuste da porsi? Quindi la logica di questo ragionamento è che le donne devono stare a casa per evitare di essere stuprate?

State protestando per la mancanza di libertà causata della restrizioni anti Covid mentre a una donna si dice dove andare, con chi andare, a che ora e come deve vestirsi. E qui non ci vedete la sottrazione della libertà personale?

Quindi ricapitolando: NO vuol dire NO, la vittima non è il colpevole, nessun atteggiamento, vestito o geolocalizzazione a una certa ora è causa di uno stupro. E basta. Basta. Basta.

N. B. Tutte le maiuscole e le minuscole in questo post sono volute

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Manuale

Sono un cliché

23 Ottobre 2020 by Silvia T. Nessun commento

Ho passato tutta la vita a cercare di non diventarlo eppure eccomi qui ad ammetterlo: sono un cliché.

Sono una donna adulta di trentotto anni. Non sono sposata, non ho figli e e vivo da sola. Quella che i più (i meno svegli di solito) definiscono una “zitella”. Sono una donna adulta che ha un lavoro che non è una passione e una passione che non è un lavoro. Ho avuto grandi sogni che sono andati via via rimpicciolendosi…

Sono alla ricerca dell’amore? Direi proprio no. Come tutti i cliché, vivo nella paura di soffrire e quindi evito quello che potrebbe provocare dolore. E l’amore mi ha fatto soffrire, troppo. Mica sarò così cretina da rinfilarmici?

Una volta il cliché alla mia età era essere sposata con figli e mutuo ma i tempi cambiano e così anche i cliché e ora il testimone è passato alle donne come me: single (sempre le zitelle di cui sopra), che non bruciano i reggiseni ma che sono coscienti dei loro diritti, sporadicamente bevitrici, che vivono e si mantengono da sole. Vaghiamo tra confusione e silenzio, alla ricerca di qualcosa che ci scuota dal torpore della quotidianità.

Forti, audaci, indipendenti ma comunque un cliché. Non dobbiamo avere bisogno di nessuno, è nello statuto del nuveau cliché, dobbiamo cercare noi stesse ma non dobbiamo trovarci in luoghi troppo assurdi. Dobbiamo essere il nostro corso/libro/lifecoach di autoaiuto.

E da “io” sono già passata a un “noi” generico. Tornerò all’ io narrante e infatti, io mi porto il peso di un altro immenso cliché: la scrittrice fallita. Colei che vive nella bruciante sensazione di aver un talento che non può, non sa e forse non deve neanche utilizzare.

Ma non deve essere tutto negativo, sapete. Ho scoperto che, in fondo, essere un cliché non è così terribile come pensavo. Perché di grazia?

  • Se hai sempre pensato con la tua testa, hai preso le tue decisioni e pagato i tuoi conti, è così importante il risultato finale?
  • Rischiare non ti salva dal diventare un cliché ma ti salva dall’impazzire; come si può vivere nella costante certezza di non aver mai provato a fare niente?
  • Un cliché che sa di esserlo assume un grande potere.

E allora perché ce la stai menando con questo articolo? Me lo sono chiesta anch’io, che credete? Sono un cliché dotato di intelligenza e spirito critico. La risposta è: io ho sempre voluto essere un outsider.

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Recensioni

Teresa

27 Novembre 2019 by Silvia T. Nessun commento

“Teresa ha perduto l’amore della sua vita, ed è disposta a tutto pur di non sentire più alcun dolore. La sola cosa che desidera è sotterrare il suo cuore in un fosso. Ma come? Decide di bussare alla porta di Donna Maria, misteriosa fattucchiera da sempre al centro di storie e credenze folkloristiche che hanno accompagnato Teresa fin da bambina. Le due donne stringeranno un patto dai risvolti oscuri, ma a interferire col piano arriverà Salvatore, amico d’infanzia da sempre follemente innamorato di Teresa. Comincia così un viaggio a ritroso dove ricordi del passato si fondono a elementi ritualistici del presente, dove il sogno e la realtà si confondono fino a un inaspettato scioglimento finale. Un racconto che è la presa di coscienza di una giovane donna attraverso il suo ostinato percorso di liberazione da limiti interni ed esterni, nella provincia di un piccolo paese di un sud Italia lontanissimo eppure sempre attuale.”

“La vita è quella cosa che ci accade mentre siamo occupati in altri progetti” (John Lennon). E questo accade a tutti prima o poi; ai più fortunati solo una volta. Perdere l’amore, come cantava Massimo Ranieri (per i più giovani, vi consiglio di ascoltarla su Youtube) è l’esperienza più universale del mondo. Tutti soffriamo nello stesso modo ma in modo diverso (così come tutti scriviamo delle stesse emozioni ma in maniera diversa).

Ed è quello che è successo a Teresa, la protagonista del nostro racconto (io lo definirei più un racconto lungo che un romanzo ma questo non lo sminuisce, anzi. Puntiamo sempre alla qualità e non alla quantità) e lei vorrebbe strapparsi il cuore, metterlo a tacere per sempre e smettere di soffrire. Lei non era “occupata in altri progetti”, il suo unico progetto era l’amore stesso.

E questa sofferenza avvolge tutto il racconto, anche in maniera fisica. Esplode durante il rito di Teresa e la rende vivida, attraverso le forme e i colori in cui è immersa la protagonista. Ma il mondo non si ferma perché hai il cuore spezzato (anche se, a mio parere dovrebbe, almeno per rispetto) ma la tua vita sì. E solo tu puoi farla ripartire.

L'”oggetto amato” sbiadisce a confronto con il dolore che ha provocato. Non ha ossa, non ha sangue. La sofferenza sì. Ed è così che la vediamo nel racconto. Un’entità vera e con una forza distruttiva reale (Donna Maria? Io la vedo così).

L’ambientazione nel Sud Italia tradizionalista (a volte anche troppo!), con il suo folklore e la sua passione, dona al racconto quel pizzico di magia che pervade anche l’aria in questo racconto.

In alcuni tratti, mi ricorda molto gli scrittori del realismo magico; se non sapete cos’è, leggete qualcosa di Marquez, della Allende o del buon Dino Buzzati (ad esempio i “Sessanta racconti“).

Mi congratulo con l’autrice per aver saputo trascinarci in questo mondo reale, immaginato e dipinto di emozioni.

Il finale mi è piaciuto, anche se, per un attimo, ho temuto che la storia prendesse un’altra strada, che non sarebbe stata altrettanto efficace.

Unica pecca: la costruzione del finale. Quando ci si muove su piani diversi (realtà e sogno, presente e passato ecc…), il passaggio da uno all’altro non deve essere necessariamente esplicito ma deve essere capito. Ho dovuto rileggere un paio di volte i passaggi per riannodare il filo.

Le parole per descriverlo: vivido e doloroso.

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